Si è a atteso lungo prima di scrivere del controverso Piracy Shield, nella speranza che il sistema potesse raggiungere il grado di affinamento necessario a poter essere giudicato se non per le sue fondamenta (errate da un punto di visto tecnico fin dall’origine, come vedremo) almeno da un punto di vista di corretto utilizzo. Se per le prime, appunto, non vi era speranza di redenzione, dopo l’ennesimo caso di oscuramento illegittimo di servizi che nulla hanno a che fare con la pirateria, anche per la seconda non vi sono segnali incoraggianti, soprattutto ascoltando le repliche di circostanza e conditi di distinguo all’indomani dell’ennesimo e clamoroso fallimento della piattaforma.
Ma procediamo con ordine.
Cos’è Piracy Shield
Piracy Shield è ciò che la nostra classe politica, ignorando i pareri tecnici, è riuscita a produrre per tentare di eliminare il fenomeno della pirateria audiovisiva online, con particolare riguardo alla trasmissione di eventi sportivi (ma non solo) live. La piattaforma, la cui partecipazione è obbligatoria per tutti gli internet service provider (ISP) italiani, permette ai proprietari di contenuti protetti dal diritto d’autore di segnalare in tempo reale gli indirizzi IP corrispondenti a servizi che offrono streaming illegali dei propri prodotti, obbligando gli stessi all’oscuramento automatico e immediato (entro 30 minuti – circostanza che rende difficoltose anche le verifiche sulle segnalazioni) pena sanzioni pesantissime.
Naturalmente un sistema del genere appare assolutamente inadatto a interfacciarsi con la rete internet di oggi, nella quale gli indirizzi IP sono spesso assegnati dinamicamente a servizi diversi anche nell’arco di poche ore e possono a loro volta ricondursi più servizi, non necessariamente dello stesso tipo e senza nessuna possibilità di controllo da parte dei proprietari.
Il risultato, ampiamente prevedibile sin dalla presentazione del sistema, è stato un uso indiscriminato delle segnalazione da parte dei creatori di contenuti con ripercussioni tragiche sulla navigabilità di alcune porzioni di rete, oscurate solo perché malauguratamente avevano condiviso o erano state ricollocate automaticamente su un indirizzo appartenuto ad un fornitore di contenuti illegali. Un vulnus insanabile all’origine, figlio probabilmente di una cieca volontà censoria in spregio a qualsiasi rispetto del buon funzionamento della rete internet, fondamentale oggigiorno per qualsiasi tipo di attività. Di più, non si capisce come sia stato possibile legalmente passare dalla necessità di un provvedimento di oscuramento ad opera della Polizia Giudiziaria all’utilizzo di un semplice CMS in mano ad operatori privati che per mano di propri soggetti non ben identificati oscurano contenuti senza, ad oggi, possibilità di contraddittorio o verifica, sollevando perplessità di ogni livello.
Cosa è successo nel weekend
È ormai triste consuetudine, per quanto scritto, che nella tagliola di Piracy Shield finiscano regolarmente indirizzi IP di svariata natura, con i proprietari dei servizi abbinati costretti a sobbarcarsi l’onere di una segnalazione all’AGCOM, attraverso canali poco chiari (Giovanni Zorzoni, presidente di AIIP – Associazione Italiana Internet Provider – ha detto di aver utilizzato “messaggi Whatsapp”) richiedendo lo sblocco. Per evitare che i disservizi colpiscano sistemi essenziali esiste in realtà una c.d. “white list” di indirizzi non censurabili ma è evidente che per le dinamicità intrinseche della rete tale soluzione sia assolutamente insufficiente, così come empiricamente provato dai recenti accadimenti.
Infatti nel tardo pomeriggio di sabato, in occasione dei match pomeridiani della Serie A sono scattati i sigilli per un indirizzo IP riconducibile a uno dei canali principali della rete di Openfiber, provider wholesale di connettività, causando gravi disagi al traffico. A seguire è stato il turno di alcuni indirizzi afferenti al servizio Google Drive, popolarissimo provider di cloud storage, nonchè una porzione di quelli utilizzati dal motore di ricerca stesso di Google e dal servizio Youtube. Il tutto è verificabile attraverso uno strumento di monitoraggio ad hoc e confermato dalle statistiche del popolare servizio Downdetector, utilizzato dagli utenti per segnalare anomalie sui servizi più noti
Inutile specificare che i danni siano stati molto gravi, mitigati solo parzialmente dal fatto che durante il weekend almeno il traffico business fosse per ovvie ragioni minore.
La giustificazione di AGCOM
Impermeabile a qualsiasi critica tecnica e accademica ricevuta sin dagli inizi, AGCOM non si è scomposta nemmeno in questa occasione. Durante un intervento informale il presidente dell’authority ha assicurato una pronta risoluzione delle problematiche riscontrate (scontata e dovuta) lasciandosi tuttavia trasportare in dichiarazioni sprezzanti circa la presunta connivenza dei fornitori di servizi come Google nell’indicizzazione e sfruttamento di contenuti illegali, quasi a giustificazione delle procedure grossolane di blocco.
Questa posizione risulta molto grave in quanto ignora completamente il principio di net neutrality e conferma, se ancora ve ne fosse bisogno, l’approccio squisitamente censorio di un sistema che agisce di fatto al di sopra di ogni controllo, su mandato di soggetti privati, nato da una volontà politica che antepone, evidentemente, le necessità di tutela economica dei pochi a quelle dei molti interessati ad una piena funzionalità della rete internet nel Paese. Vale la pena ricordare che AGCOM dovrebbe agire da Garante per le Telecomunicazioni, al fine di assicurare la corretta concorrenza degli operatori sul mercato e di tutelare il pluralismo e le libertà fondamentali dei cittadini nel settore delle telecomunicazioni, dell’editoria, dei mezzi di comunicazione di massa e delle poste.
A completare il quadro, la recente notizia che proprio la Lega di Serie A di calcio sia intenzionata ad agire legalmente contro Google lamentando la scarsa cooperazione nella rimozione di materiale segnalato ma soprattutto l’inerzia nel rimuovere dal proprio store virtuale applicazioni che, a suo dire, favorirebbero la fruizione di contenuti pirata. Anche tale posizione appare abbastanza singolare, sia in merito ai compiti di un motore di ricerca (che è appunto quello di indicizzare quanto presente in rete) sia per quanto riguarda le applicazioni presenti sul Google Play Store dedicate alla lettura di flussi streaming, non necessariamente illegali.
In conclusione, nell’impossibilità di raggiungere, per incapacità economica e tecnica, i veri criminali che generano e diffondono i contenuti protetti, i creatori dei contenuti tentano di azzoppare la rete internet per precluderne l’accesso agli utenti o intimidire chi ne indicizza i contenuti o distribuisce applicazioni adattabili alla loro fruizione, colpendo indiscriminatamente utenti e aziende che nulla hanno a che fare con gli illeciti.
Cosa aspettarsi?
Nell’immediato, purtroppo, quasi nulla. Restiamo in attesa di risvolti normativi che ci auguriamo si manifestino presto e di interventi legali a propria tutela da parte dei giganti del web che, per una volta parte lesa, potranno schierarsi a fianco delle associazioni dei consumatori e di tutti quei soggetti che hanno subito danni.
Il prossimo capitolo della vicenda, probabilmente, vedrà opporsi i creatori di contenuti ai provider di servizi VPN (Virtual Private Network) responsabili dell’aggiramento dei blocchi instradando il traffico internet cifrato su percorsi alternativi a quelli bloccati. Sistemi universalmente usati per ragioni di sicurezza nelle comunicazioni, privacy o per aggirare censure di stato, e caratterizzati da criteri di sicurezza e riservatezza molto stretti che, by design, molto difficilmente potranno conciliarsi con intenzioni ispettive e censorie. Ma, come anticipato, sarà materiale per la prossima puntata.
Al momento, l’esistenza stessa di Piracy Shield rappresenta già un grave unicum tra le democrazie occidentali, un suo reiterato utilizzo alle condizioni attuali rischia di causare danni enormi sia pratici sia di immagine a tutto il Paese.