Per quanto paradossale possa apparire, attualmente il metodo più comune per trasmettere le credenziali di accesso ai beni digitali, se non addirittura i beni digitali stessi, è da rinvenirsi nei servizi specifici offerti dalle multinazionali di Internet (Google, Facebook, Amazon, Microsoft, Apple, ecc.) fornitrici di servizi della società dell’informazione.
Tali rule makers, ben consapevoli del fenomeno successorio digitale e delle problematiche ad esso correlate, consentono ai propri utenti di nominare, con una specifica dichiarazione, un soggetto che gestirà l’account (ad esempio, Facebook o Instagram[1]) o al quale far pervenire il contenuto della propria casella di posta elettronica (ad esempio, Google tramite il servizio “gestione account inattivo”) così fornendo ai propri clienti un servizio di grande utilità e sottraendosi nel contempo
a liti e controversie giudiziarie (si veda il caso di Justin Ellsworth) dall’esito incerto[2].
Del resto, le problematiche che caratterizzano il fenomeno della successone digitale rendono auspicabile il ricorso a strumenti dell’autonomia privata, tenuto conto che attualmente solo così possono essere risolti i conflitti tra eredi e/o congiunti [3].
Il giurista moderno non può ignorare il fenomeno in corso né, tanto meno, la natura giuridica di siffatte dichiarazioni e le problematiche conseguenti.
Dal punto di vista strettamente formale, la dichiarazione resa dall’utente registrato – dunque, dall’utente che sia stato identificato – al fornitore del servizio è pienamente valida ed efficace ex art. 20 del CAD, trattandosi di documento informatico sottoscritto elettronicamente con firma “semplice”.
Dal punto di vista sostanziale e formal-successorio, invece, nulla quaestio: il testamento resta l’unico meccanismo negoziale attraverso il quale è possibile effettuare un’attribuzione patrimoniale mortis causa e, pertanto, una siffatta dichiarazione potrà essere utilizzata al più per il trasferimento a determinati soggetti di diritti esclusivamente personali legati all’identità del defunto, non sussistendo per essi i limiti di cui all’art. 458 c.c.[4].
Dunque, risulta illegittimo disporre attraverso tale dichiarazione, ad esempio, della propria libreria musicale o della videoteca virtuale, ma perfettamente legittimo disporre della corrispondenza elettronica o dell’insieme delle comunicazioni su social network [5].
In tale ultimo caso, infatti, la manifestazione di volontà sarebbe legata all’amministrazione della propria identità in rete e, dunque, alla realizzazione dei desiderata espressi dal defunto (come, chi o a quali condizioni può accedere ai documenti riservati o familiari), non all’attribuzione di un bene ereditario (avente contenuto patrimoniale) in quanto tale.
Tuttavia, come già osservato, i beni digitali possono avere un contenuto ibrido e gli interessi patrimoniali ed extrapatrimoniali ad essi collegati possono sovrapporsi. Conseguentemente, se da un lato, alcuni soggetti potranno essere chiamati dalla legge o dal testamento a subentrare nei diritti sul patrimonio digitale, dall’altro lato, la gestione post mortem dello stesso (anche in punto di sfruttamento economico e commerciale) potrebbe essere affidata ad un terzo nominato con un’apposita citata dichiarazione.
Il terzo nominato, peraltro, potrebbe poi assumere nel contempo sia la veste di esecutore testamentario, qualora nella dichiarazione fossero specificati i contenuti e i limiti dei poteri da esercitare, sia, in caso contrario, la veste di amministratore fiduciario.
Tale ultima possibilità si concilierebbe, peraltro, con la previsione di cui all’art. 29 del Regolamento UE n. 650/2012, che prevede la facoltà di nomina di un amministratore dell’eredità o di un esecutore del testamento da parte degli organi giurisdizionali competenti a norma della legge regolante la successione[6].
Un dato è in ogni caso incontestabile: tali dichiarazioni (se serie ed effettive, oltre che in grado di garantire l’autenticità della provenienza e la certezza del tempo in cui sono state rese) costituiscono una manifestazione di volontà formalmente valida ed efficace, anche se non rispetta le formalità previste per il testamento.
Esse, invero, configurano un negozio atipico – da inquadrarsi negli atti unilaterali di ultima volontà (non vi è infatti accordo con il terzo né una sua accettazione) sempre revocabili – destinato a spiegare gli effetti dopo la morte del defunto, con il quale il dichiarante intende attribuire al terzo un potere derivante da un incarico[7].
Si osservi infine che, sebbene utile e adeguato alla realtà digitale, anche tale negozio può rivelarsi insufficiente, in quanto il terzo nominato sarà libero di accettare o rifiutare l’incarico.
Per approfondimenti “La successione nel patrimonio digitale”, Pacini Giuridica, 2020
[1] Serena, Eredità digitale, in AA.VV. Identità ed eredità digitali, stato dell’arte e possibili soluzioni, Aracne, 2016, p. 123 [2] G. Resta, La morte digitale, in Dir. inf. e inform., 2014, p. 917. [3] G. Resta, La morte digitale, cit., p. 916. [4] Marino, La successione digitale, in Oss. dir. civ. e comm., 2018, p. 193; M.V. De Giorgi, I patti sulle successioni future, in Riv. dir. comm., 1979, pp. 138 e ss.; G. Resta, La morte digitale, cit., p. 918. [5] G. Resta, La morte digitale, cit., p. 919. [6] Marino, La successione digitale, cit., p. 194. [7] Marino, La successione digitale, cit., p. 197.